Gli atti di persecuzione sessista nei luoghi di lavoro Secondo accreditate rilevazioni statistiche, anche in Europa la povertà è femminile e in Italia lo è particolarmente, posto che per le donne l’occupazione raggiunge solo il 46% contro una media europea del 57%, mentre il loro livello retributivo, in media, non raggiunge neppure il 75% di quello maschile. E’ la legge patriarcale/mercantile, strutturata sull’ordine maschile/proprietario che prevede la disponibiltà degli esseri umani posti in situazione di subalternità dalla concentrazione del potere nelle direzioni di impresa, che rende le vite femminili soggette al bisogno e ai molti conseguenti soprusi. Per il sistema la normalità è costituita dal lavoro produttivo retribuito per il maschio adulto e dal lavoro di riproduzione sociale gratuito -presentato come doverosa cura famigliare- per la donna. Una suddivisione gerarchica del lavoro domestico ed extradomestico che contribuisce alla ricchezza della nazione, mentre indebolisce e svalorizza la posizione della donna sul mercato del lavoro; la rende ricattabile e violabile. Come risulta dalle rilevazioni del comitato Pari Opportunità presso la Commisssione europea in campo lavorativo (sistema di “flexsecurity” e pari opportunità) non c’è legge o codice di parità che tenga; se la costituzione materiale nega al soggetto femminile il fondamentale diritto al pari valore, si crea un piano inclinato negativo: dai quotidiani gesti spregiativi alla persecuzione con atti di costrizione e di violenza in famiglia e nei luoghi sociali soprattutto per quelle che hanno deciso di reggere il filo della propria vita in autonomia rispetto ai ruoli imposti dalla tradizione. Queste considerazioni racchiudono in sé la storia del “mobbing”, un fenomeno per decenni sommerso e negato in Italia, ove soprusi, atti di persecuzione e vessazione contro donne lavoratrici ad opera di uomini (colleghi, superiori, datori di lavoro) si verificano da sempre, ma non esiste una legge organica che preveda e punisca tali comportamenti, anche se negli ultimi lustri alcune sentenze della magistratura hanno creato un sistema piuttosto coerente di regole giuridiche cui richiamarsi. Va detto che il “mobbing”, come altre forme di violenza, può considerarsi quale “manifestazione di potere relazionale storicamente diseguale fra donne e uomini.....uno dei principali meccanismi sociali attraverso i quali le donne sono costrette ad occupare una posizione subordinata rispetto agli uomini” (Comitato europeo per l’eguaglianza fra donne e uomini, CEDAW 2006) Le forme note di “mobbing” sono diverse, alcune decisamente subdole ed è importante riconoscerle tempestivamente, ammettendo prima di tutto con se stesse di esserne diventate il bersaglio. Nel luogo di lavoro possono verificarsi soprusi a carattere prevalentemente fisico ovvero psicologico contro la donna presa di mira: nel primo caso l’autore può essere l’imprenditore o un lavoratore sovraordinato (“mobbing verticale”) oppure un collega di pari livello (“mobbing orizzontale”); nel secondo caso l’autore è quasi sempre un superiore o il datore di lavoro (“mobbing verticale”), cioè uno che, per il ruolo ricoperto, possiede strumenti di pressione nei confronti della vittima designata. Spesso l’attività di “mobbing” sconfina con vari reati (molestie, ingiurie, violenza privata, lesioni personali, violenza sessuale ecc) allorchè i soprusi si manifestino attraverso commenti ingiuriosi a sfondo sessista, toccamenti non voluti in zone erogene, fino a veri e propri assalti fisici e a violenza sessuale. In genere, l’autore di “mobbing fisico” necessita di un luogo sufficientemente appartato per compiere la violenza impunemente: i casi più frequenti sono quelli del capo che convoca la lavoratrice sottoposta e la tormenta con atti a sfondo sessuale chiaramente non graditi, ricorrendo anche a ricatti più o meno espliciti relativi al rapporto di lavoro (conferma di contratto a termine ovvero minaccia di licenziamento, passaggio da part time a full time o viceversa, riconoscimento di un superiore inquadramento o dequalificazione ecc). Nel caso di lavoratore pari grado, l’attacco sarà, invece, prevalentemente svolto attraverso palpeggiamenti subdoli e insulti sessisti che tendono a mortificare la donna, isolandola rispetto alla generalità dei colleghi. Chiaramente, un evento più raro perchè pericoloso per l’autore a causa di possibili testimoni delle malefatte. Il “mobbing psicologico” consiste normalmente nella sistematica svalutazione dell’operato della vittima, accompagnato da ripetuti commenti negativi, richiami e sanzioni disciplinari, dequalificazione e demansionamento rispetto a compiti precedentemente svolti, spesso come forma di ritorsione a seguito di assenze per malattia o per maternità. Soprattutto in quest’ultimo caso non è raro che la donna, rientrando al lavoro, trovi i suoi compiti precedenti assegnati ad altri, oppure si trovi preposto un collega precedentemente pari grado o persino un neo assunto (magari da lei stessa formato) che le faccia sentire tutto il peso dell’autorità acquisita. Spesso questi attacchi sono organizzati più o meno direttamente dall’imprenditore e sono finalizzati a fiaccare la resistenza della lavoratrice, inducendola a dimissioni solo apparentemente volontarie. La circostanza non è ignota, tant’è che fin dalla legge n. 1204/1971 (confermata dalla L. n. 151/2001) le dimissioni delle lavoratrici madri devono essere convalidate dal Ministero del Lavoro che, recentemente, ha predisposto un apposito questionario per gli Ispettorati provinciali del Lavoro (cfr. Il Sole 24 Ore 11.3.2009). Il “mobbing” va considerato violenza sessista perchè è praticato da uomini e subito da donne; ha l’effetto di provocare nella vittima disturbi psicofisici anche gravi, inviando contemporaneamente il messaggio che il luogo di lavoro è territorio del potere di un sesso contro l’altro. Va contrastato con strategie di resistenza attiva, qualunque sia la forma di lavoro anche precario in cui ci sitrova: la sottomissione impedirà definitivamente una efficace difesa della vittima verso un aggressore reso sempre più baldanzoso. Se il “mobbing” è praticato da colleghi (anche preposti), va immediatamente denunciato al datore di lavoro, ad altri colleghi, sindacalisti, amici e famigliari. Se è praticato dal datore di lavoro la denuncia immediata è essenziale per procurarsi testimoni che saranno per lo più indiretti. In ogni caso, è importante ricorrere al medico per la certificazione di eventuali lesioni fisiche (ematomi) o di disturbi psicologici (ansia, depressione) come reazione emotiva allo stress. Per il “mobbing” psicologico la giurisprudenza richiede una certa durata nel tempo del comportamento lesivo, quindi è consigliabile tenere un diario giornaliero in cui descrivere i comportamenti mobizzanti chiedendo sistematicamente per iscritto la conferma scritta delle disposizioni ritenute vessatorie: anche se non si ottiene risposta, vale comunque la richiesta come indizio. E’ soprattutto necessaria una constatazione medica precisa e protratta nel tempo delle conseguenze fisiche e psichiche delle vessazioni subite. Un rapporto di lavoro inquinato da “mobbing” è già virtualmente finito: meglio concluderlo rendendo possibile una richiesta di risarcimento dei danni (biologico, psicofisico, relazionale) che consentire, con il silenzio, la beffa dell’impunità per l’aggressore, magari attraverso la responsabilizzazione della vittima, incolpata del torto subito. |