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Senza scopo di lucro PDF Stampa E-mail

Ogni tanto ce ne ricordiamo quando vediamo in televisione, nei documentari, le donne africane fare chilometri ogni mattina con le giare fino al pozzo o, più in piccolo ma sulla nostra pelle, quando ci manca l'acqua in casa per qualche ora.

Eppure non c'è dubbio che tutte le meraviglie tecnologiche di cui ci riempiamo la casa ci apparirebbero immediatamente come superflue chincaglierie se non disponessimo più di acqua corrente per bere, cucinare, lavarci e lavare. Acqua corrente e potabile, come dovremmo ricordare sempre prima di comperare chili di minerale costosa, meno salubre ed inquinante.

Il servizio di fornitura di acqua potabile mediante acquedotto, denominato servizio idrico integrato quando comprende quello di fognatura e depurazione delle acque reflue, in Italia è stato gestito da aziende municipalizzate, diretta emanazione dei Comuni, fin dai primi anni del Novecento, quando il liberale governo Giolitti affidò ai Comuni un servizio prima gestito da aziende private; si era capito infatti che il privato "portava l'acqua" solo dove ciò era remunerativo, lasciando larghi strati della popolazione in condizioni medioevali. Ma poiché le epidemie non facevano distinzione di censo, questo stato di degrado si rifletteva anche sulle classi abbienti. Per questo si decise che certe garanzie di universalità ed economicità del servizio idrico potevano essere assicurate solo dal pubblico. Da allora, fino alla metà degli anni '90, nel bene e nel male, il servizio idrico è stato esteso alla stragrande maggioranza dei cittadini con acqua di buona qualità in gran parte della penisola e con tariffe molto economiche tanto da non pesare molto sul portafoglio - anche perché parte dei costi sono sostenute dalla fiscalità generale.

Ma il vento privatizzatore che ha consegnato, con risultati sotto gli occhi di tutti, le nostre aziende pubbliche al gotha dell'imprenditoria italiana, non poteva lasciare immune l'acqua.

A partire dalla legge Galli del 1994, un susseguirsi di interventi legislativi hanno prima reso possibile e poi incoraggiato la privatizzazione che si è diffusa a macchia di leopardo. Fino al Tremonti di questi mesi, che lasciate ai salotti ed ai libri da vendere le chiacchiere antiliberiste della sua presunta metamorfosi, con l'art.23 bis della legge n.133 del 2008 afferma con protervia che tutti i servizi pubblici locali, acqua compresa, devono essere messi sul mercato e gestiti da società private o miste, lasciando in piedi l'opzione di affidamento diretto ad aziende pubbliche, cosiddetta "in house", con tali e tanti vincoli da renderla quasi impraticabile. E' appena il caso di ricordare che per la Corte di Giustizia Europea, le regole europee consentono ad un'autorità pubblica "la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi".

I movimenti popolari, in questi anni, non sono stati a guardare. Non hanno accettato il principio che l'acqua sia una merce come le altre e che dovessimo lasciare il patrimonio idrico del pianeta nelle mani di poche grandi multinazionali. Così in America Latina si sono combattute battaglie anche sanguinose a difesa dell'acqua - che nella cultura indigena ha un valore di sacralità che si è perso quasi del tutto in Occidente - fino ad ottenere vittoriose ripubblicizzazioni in Bolivia e Uruguay. In tutta Europa si sperimenta il ritorno al pubblico, dopo aver visto i disastri delle gestioni private, ed è di queste settimane l'annuncio che Parigi allo scadere del 2009 riprenderà in mano pubblica la gestione dell'acquedotto.

Anche da noi, nonostante il livello della classe politica attuale, grazie alle pressioni ed alle iniziative dal basso, si collezionano piccole vittorie sui territori e si sperimentano forme di resistenza all'arroganza del privato, come a Latina, dove gli agguerriti comitati locali aiutano i cittadini a praticare, in via di disobbedienza civile, l'autoriduzione della bolletta ai livelli della precedente gestione comunale ed il pagamento di questa al Comune invece che al gestore Acqualatina SpA.

E' nato un Forum Italiano dei Movimenti per l'acqua che oltre a connettere e incoraggiare le campagne locali ha raccolto nel 2007 quasi 500.000 firme (di cui 20.000 solo a Torino) per una legge popolare di ripubblicizzazione che adesso è in discussione nelle Commissioni parlamentari.

La battaglia per l'acqua pubblica ha assunto quindi uno straordinario valore simbolico, ma vi sono fondati motivi di ordine tecnico-economico a sostenere la scelta rigorosa della gestione pubblica anche a prescindere, come non si deve fare, dalla specialità unica del bene acqua.

A sostegno della tesi secondo cui il servizio idrico dovrebbe migliorare con la privata gestione si portano comunemente due argomenti ricorrenti:

1) Se il prezzo dell'acqua è troppo basso, come attualmente, l'utente finale è indotto allo spreco. Tariffe proporzionate al reale valore del bene costituirebbero un incentivo al risparmio.

2) La gestione aziendale del servizio raggiungerà risultati di maggiore efficacia ed efficienza.

Il gestore può perseguire tre strade, anche simultanee, per l'incremento dei propri utili: l'aumento della tariffa entro i limiti consentiti dal mercato, la riduzione dei costi di gestione e l'aumento delle "vendite" (ossia del fatturato).

Ma la tariffa, ad oggi, è ancora stabilita dagli enti locali sulla base anche di criteri sociali. Nel caso, non così remoto, che in futuro essa sia affidata al mercato (il Forum dell'Aja del marzo 2000 dichiarava la necessità di affidare al mercato la definizione del "giusto prezzo" dell'acqua considerata come bene economico), per poter sperare di ottenere le riduzioni di consumo previste nella prima argomentazione, allora ci si deve domandare: di quale mercato si tratta? Poiché un qualunque cittadino è vincolato a ricevere l'acqua dalla rete locale, non ha possibilità di scelta: si tratta di una situazione di "monopolio naturale".

Chiunque dovrebbe concordare che, data l'ineliminabilità del monopolio, conviene ai cittadini che esso sia pubblico e non privato, quantomeno perché, se il monopolio è privato, l'impresa che ne beneficia "fa" il prezzo entro ampi limiti (per tacere di altre ragioni). Ma c'è di più: l'aumento delle tariffe, già sperimentato in varie sconcertanti gestioni nazionali, colpirebbe ovviamente soprattutto i ceti

sociali disagiati, che potrebbero essere costretti a razionare un bene di primaria importanza per la vita. Questi soli sarebbero indotti a diminuire i consumi, mentre i ceti alti, il cui consumo d'acqua pro capite è per di più maggiore, sarebbero ben poco toccati. Ancor meno lo sarebbero le aziende "idrovore", come ad es. le cartiere, che si riforniscono spesso direttamente dalla falda. Senza contare che, in assenza di controllo pubblico, le tariffe potrebbero essere differenziate dall'azienda in modo da penalizzare gli utenti di quelle zone lontane o poco densamente popolate che incidono in maggiore misura sul costo.

La seconda opzione a disposizione dell'azienda (la riduzione dei costi) avrà probabilmente come naturale conseguenza, oltre alle politiche di tagli già sperimentati ampiamente in altri settori privatizzati (pensate a Ferrovie dello Stato e Poste Italiane), l'abbandono a se stessa della rete idrica causata dall'abbattimento dei costi di manutenzione. Infatti l'impresa guadagna sul volume d'acqua prelevato dagli utenti, mentre non paga l'acqua che la natura convoglia alla rete di acquedotto.

Non è credibile che le maggiori spese di pompaggio, unica voce di costo variabile ad essere incrementata dalla presenza di perdite nella rete, possano superare i costi di manutenzione della stessa (gli acquedotti italiani, come si sa, non versano in buone condizioni) e quindi indurre l'azienda a fare piani d'investimento in tal senso.

Questo elemento porterebbe quindi ad un progressivo aumento degli sprechi, anziché alla loro diminuzione. D'altra parte la corretta ed efficiente gestione della rete, in quanto concausa di un miglior servizio offerto, sarebbe per l'azienda conveniente per ottenere la soddisfazione del cliente e la sua fidelizzazione: ma questo, di nuovo, avrebbe senso in regime di libera concorrenza, non nel caso di monopolio privato, in cui il cliente è vincolato nella scelta entro ampi limiti. E se nel caso di poste e ferrovie l'utente può almeno scegliere differenti modalità di comunicazione o, rispettivamente, di trasporto, ciò non è possibile per il servizio idrico.

Rimane poi da esaminare la terza opzione: l'aumento del fatturato. Ma per un'azienda erogatrice di una risorsa, aumento del fatturato equivale ad aumento dei consumi di quella risorsa. Perciò per seguire questa strada l'azienda dovrebbe incentivare la massimizzazione del consumo d'acqua e non la sua razionalizzazione.

Insomma, si tratta di argomentazioni funzionali ad aprire nuovi ghiotti mercati per i colossi del settore pronti a rivendicare, direttamente o per bocca di forze politiche, la necessità di liberalizzare ciò che resta dei servizi pubblici locali.

In questo contesto il Comitato torinese per l'acqua pubblica propone al Comune ed alla città intera di affermare nello Statuto comunale il principio fondamentale che l'acqua è un servizio da gestire senza scopo di lucro.

Una definizione semplice e pulita: sull'acqua non si specula, nessuno deve trarre profitto dal servizio pubblico più importante e vitale. Una gestione virtuosa del servizio, da perseguire con intransigenza e scelte oculate, deve produrre esclusivamente benefici economici per la comunità locale.

Con una tale dichiarazione, seguono logici i commi successivi che proponiamo di inserire nello Statuto: la gestione della rete idrica, la cui proprietà deve rimanere pubblica e inalienabile, e l'erogazione del servizio sono da affidarsi ad enti o aziende pubbliche. Un nuovo modello di pubblico, che faccia tesoro delle gestioni migliori del passato e del presente compresa l'esperienza di SMAT, aprendo però alla partecipazione di rappresentanti della società civile e dei lavoratori del servizio stesso alle scelte di gestione.

Infine proponiamo che venga stabilito e garantito un minimo vitale gratuito per ciascuno, perché il diritto all'acqua valga per tutti.

I Consiglieri e il Sindaco raccoglieranno questa sfida, con cui "offriamo"a Torino la chance per porsi, sull'acqua, all'avanguardia in Italia, sull'esempio di Parigi e - potremmo dire - ben prima della rivale di sempre Milano?

Dipende anche da tutti noi: se andremo a firmare ai banchetti in tantissimi, nei prossimi mesi, questa utopia così concreta potrà farsi reale e aprire la strada alla ripubblicizzazione dell'acqua nel Paese.


Francesco Nannetti

del Coordinamento piemontese per l’acqua pubblica

www.acquabenecomune.org



NOTA

Le riforme che hanno condotto all'attuale situazione partono nel 1994 con la legge n.36 (legge "Galli") che accanto ai notevoli meriti sia in alcuni principi espressi sia nella riorganizzazione del settore, pone però le basi per la gestione mercantile laddove afferma che la tariffa deve coprire per intero i costi del servizio.

Le riforme targate "Bassanini", anch'esse benemerite sotto altri aspetti, sfociano nel Testo Unico degli Enti Locali (d.lgs.267/2000) che consente la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica anche mediante società di capitali a partecipazione privata, anche maggioritaria. Nel paese la privatizzazione dell'acqua si diffonde a macchia di leopardo sul territorio finché, con la Finanziaria 2002 di Berlusconi-Tremonti, si impone la gestione mediante società private o miste obbligando i Comuni a mettere l'acqua sul mercato.

Nel silenzio totale dei mezzi d'informazione, si compiono però battaglie istituzionali importanti e due anni dopo il governo è costretto a riconoscere che in conformità all'Europa si deve consentire agli enti locali di assicurare la fornitura del servizio idrico mediante aziende totalmente pubbliche da loro controllate e vincolate a operare prevalentemente sul territorio dove viene loro affidato il servizio. Nasce così il modello "in house", un passo avanti ma pur sempre un modello del tutto inscritto nei paradigmi del diritto privato. E' il metodo con cui gli enti locali della provincia torinese hanno fatto l'affidamento a SMAT, che è società a totale capitale pubblico.

E arriviamo ai giorni nostri con l'art.23 bis della l.133 del 2008: ancora una volta, in contrasto con l'Europa e con la nostra Costituzione.

 
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